un bar per sconfiggere gli stereotipi
Nella città di Zarqa c’è Our Step, il primo locale del Paese interamente gestito da persone che hanno una diagnosi di malattia mentale sostenuto dalla ong italiana Un Ponte Per…
Poco prima del tramonto, la strada che porta da Amman, la capitale della Giordania, a Zarqa è intasata dal traffico dei pendolari che si affrettano a ritornare a casa per l’iftar, l’interruzione del digiuno durante il mese di Ramadan.
Zarqa, “la città blu”, in arabo, è la quarta città del paese, con 600mila abitanti e uno dei campi profughi palestinesi più datati. Attraversata al linea ferroviaria ormai in abbandono, saliamo verso il quartiere di Rusayfah: la strada, piuttosto affollata, si sta svuotando velocemente mentre Abed al Fatah e Mounir iniziano il loro turno di lavoro al bar, che finalmente, al tramonto, può aprire.
Da fuori, è una caffetteria come tutte le altre: l’insegna, illuminata dalle luci colorate del Ramadan, promette appunto caffè, thè, dolci, sandwich e varie bevande. Ma in realtà è un posto unico: si chiama “Our step”, il nostro passo, ed è il primo bar in Giordania interamente gestito da persone che hanno una diagnosi di malattia mentale. Un passo che ha richiesto mesi di lavoro, da parte di Our Step (l’associazione giordana che ha dato il nome alla caffetteria), e della ong italiana Un Ponte Per… (Upp)
Karboush, il volontario di Upp che ha seguito il progetto dall’inizio, spiega che ci sono voluti diversi mesi per trovare il locale adatto, ristrutturarlo e per formare professionalmente le tre persone che ora ci lavorano. «Ho persino rinunciato a fare da comparsa in Star Wars (che è stato girato a Petra, ndr) pur di continuare a seguire il progetto», racconta ridendo Karboush, che sogna di diventare un attore. A marzo la scelta di Karboush è stata ripagata dalla soddisfazione di piter finalmente aprire al pubblico.
«Non credevamo nemmeno noi che fosse possibile, che potessimo davvero essere come tutti gli altri», spiega Abed al Fatah, mentre si infila la divisa: «Oggi so di poter dimostrare a tutti che possiamo fare qualunque cosa». E trovare un lavoro è spesso la cosa più difficile.
Abed al Fatah ha 34 anni e una figlia piccola, ha studiato all’università e vissuto all’estero: «Mi è sempre piaciuto lavorare – dice -, ma da quando mi è stata diagnosticata la schizofrenia trovare un lavoro è diventato impossibile: se il datore di lavoro lo scopre non ti assume». Ma al tempo stesso tenerglielo nascosto è quasi impossibile: «Eppure prima di ammalarmi ero una brava persona, una persona intelligente», aggiunge Abed al Fatah, ma Mounir lo interrompe: «Perché dici “ero”? Lo sei tuttora». Anche la storia di Mounir è simile: era un capitano di marina, ma prima di iniziare a lavorare qui, racconta, erano 15 anni che era «seduto a casa senza fare nulla».
Nel 2008, l’Organizzazione mondiale della sanità ha identificato in Giordania la necessità di agire al più presto per potenziare i servizi di salute mentale. Ma ad oggi continuano a mancare dati affidabili sulla situazione nazionale e servizi territoriali accessibili. Ci sono in tutto 64 ospedali psichiatrici in grado di assistere appena 305 persone ogni 100mila abitanti. E anche il numero di psichiatri (1 ogni 100mila abitanti) e di psicologi (0,27 per 100mila persone) è estremamente sottodimensionato. Non sorprende che la diagnosi più diffusa sia una di quelle più generiche: schizofrenia. Complici la mancanza di risorse e la difficoltà di accedere ai servizi, specie nelle zone più povere, lo stigma per chi soffre di un disturbo mentale è estremamente diffuso, e spesso interiorizzato da chi ne è vittima.
Nata nel 2011 a Zarqa, Our step è la prima e tuttora unica associazione di pazienti in tutto il paese e conta 140 membri. La presidentessa è una donna, Amira Ali al-Jamali: «La reazione dei vicini e degli altri negozianti è stata da subito positiva: con molti di loro siamo diventati amici e molti vengono qui a prendere il caffè», ci spiega mentre scambia un cenno di saluto con un venditore di succhi di frutta che ha il negozio di fronte ad Our Step. «Tutti sanno che questa è la caffetteria di Our Step – spiega Amira – ma non a tutti abbiamo detto che a lavorarci sono persone con una diagnosi di malattia mentale».
Una strategia che Amira adotta anche quando tiene conferenze e training: «Se dicessi dall’inizio che ho avuto problemi di salute mentale – spiega – mi guarderebbero con pena, e inizierebbero ad interpretare qualunque cosa io faccia come un segno della mia malattia. Dicendoglielo alla fine, dopo una giornata o un settimana in cui hanno seguito il mio training, do loro modo di conoscermi come persona, e di fargli capire che non sono affatto diversa da loro».
Mentre chiacchieriamo, la strada torna a riempirsi di gente e di macchine, mentre i vari negozi aprono, dopo l’ultima preghiera della sera. Un gruppetto di bambini si avvicina e Mounir si alza per servirgli del mais speziato. «Il primo giorno di lavoro non è stato facile – racconta Mounir – E da quando ho iniziato a lavorare qui ci sono stati dei momenti in cui ho pensato di mollare. Sapere che ci sono persone che ci supportano, che non siamo soli, è quello che mi ha spinto ad andare avanti: voglio che questo sia un nuovo inizio per poter un giorno realizzare i miei sogni».
La collaborazione tra Our Step e Un Ponte Per…, che ha permesso (grazie ai fondi dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo) l’apertura della caffetteria, risale al 2015 … l’apertura della caffetteria, risale al 2015: «L’idea è sempre quella di partire dai bisogni delle comunità più marginalizzate, lavorando con organizzazioni locali – spiega Marta Malaspina di Upp –. Il punto per noi non è distribuire servizi, ma stare al fianco della comunità. La caffetteria è un modo per far vedere che queste persone esistono e sono in grado di lavorare». Un supporto, aggiunge Amira, che deve arrivare anche dalla società e dalle istituzioni: «Vorrei che le persone imparassero a rispettarci, perché siamo esseri umani come tutti, e che i medici facessero meglio il loro lavoro, non limitandoci a prescrivere pillole che in alcuni casi sono dannose. E poi ci servono più servizi, per abbattere lo stigma e fare prevenzione».
da Vita Daniela Sala